Edizione 2021

Le rovine del tempo

Know all men, he said, time’s ruins build eternity’s mansions.
James Joyce, Ulysses

La metafora attorno a cui si articola la seconda edizione del Cima Norma Art Festival che si svolgerà dal 14 agosto al 3 ottobre 2021 è quella delle rovine. Una metafora che fin dall’antichità ha attraversato la cultura occidentale sia in ambito letterario che pittorico (dove è addirittura diventata un genere a sé) per rappresentare il senso di caducità che caratterizza ogni attività o produzione umana, anche quelle che per la loro monumentalità apparivano destinate a sfidare l’eternità.
Le rovine sono apparse così, a seconda dei diversi periodi storici, come i residui di un’età dell’oro ormai scomparsa per sempre, oppure come un monito rispetto al senso di onnipotenza che troppo spesso pervade l’umanità, o ancora come tracce di una presenza che ci ha preceduti ma che ha ormai perso la propria possibilità di significazione.

Emblema della caducità del tempo storico rispetto al tempo della natura, il tema delle rovine percorre tutta la cultura europea dal Rinascimento in poi, soprattutto in relazione alla riscoperta del mondo classico e all’esperienza del Grand Tour, per trovare la sua massima espressione nell’ambito del sublime romantico.

Il Novecento appare invece dominato dalle terribili e lugubri rovine del presente che i due conflitti mondiali hanno prodotto prima di essere travolto dall’euforia degli anni del Boom economico. Ma le rovine della guerra sono ricomparse di nuovo alla fine del secolo con la guerra in Iraq e nella ex Jugoslavia e poi all’inizio del nuovo millennio con l’attentato alle Torri Gemelle e la guerra in Siria.

Negli ultimi decenni il tema delle rovine è tornato invece a riaffiorare soprattutto in relazione alle macerie e ai rifiuti che il modello di sviluppo tardocapitalista ha disseminato nel mondo, innescando la drammatica crisi ecologica che incombe sul nostro pianeta.
Rovine e macerie che, però, per molti autori, pensiamo ad esempio al libro di Anna Lowenhaupt Tsing The mushroom at the end of the world, sono il luogo a partire dal quale e dentro il quale trovare la possibilità di un modello alternativo di sviluppo, di una ricostruzione.


Il tempo sospeso di questi lunghi mesi dominati dalla pandemia ci hanno forse aiutato a guardare con uno spirito più consapevole e distaccato alla nostra condizione che in qualche modo, come ci ricorda Joyce, è da sempre quella di abitare dentro le rovine del tempo. Ed è da queste rovine che dobbiamo partire per costruire continuamente la nostra possibilità di abitare il mondo, come ci suggerisce l’artista svizzero Tarik Hayward, la cui personale costituisce quest’anno l’evento espositivo attorno a cui si sviluppa il festival.

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